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Il cacciatore Gracco, il racconto di Franz Kafka ambientato a Riva del Garda | Verità o leggenda

Via Franz Kafka a Riva del Garda
Il Porto di Riva del Garda: cartolina di fine Ottocento

Il cacciatore Gracco, Frank Kafka

Due ragazzi sedevano sul muretto del molo e giocavano a dadi. Un uomo leggeva un giornale sui gradini di un monumento all’ombra dell’eroe che brandiva la sciabola. Una ragazza alla fontana riempiva d’acqua il suo mastello. Un fruttivendolo stava accanto alla sua merce e guardava verso il lago. In fondo a una taverna, attraverso gli spazi vuoti della porta e della finestra, si vedevano due uomini che bevevano vino. L’oste sonnecchiava davanti all’ingresso, seduto a un tavolo. Un battello scivolò silenzioso, come se fosse trainato, dentro il piccolo porto. Un uomo vestito di una casacca blu saltò a terra e tirò le funi attraverso gli anelli. Altri due uomini, in giacca scura con bottoni d’argento, trasportavano dietro al capitano del battello una barella su cui, chiaramente, giaceva un uomo, sotto un grande telo di seta ornato di fiori e di frange.

Sul molo nessuno si curò dei nuovi arrivati, neppure quando misero a terra la barella per aspettare il capitano, che armeggiava ancora con le funi, nessuno si avvicinò, nessuno rivolse loro domande, nessuno li osservò attentamente.

Il capitano fu trattenuto ancora un poco da una donna che, con un bambino al seno e i capelli sciolti, appariva ora sul ponte. Infine giunse, accennò a una casa giallastra a due piani che lì vicino, a sinistra, si alzava dritta non lontano dall’acqua, i portatori sollevarono il carico e lo trasportarono attraverso il portone basso ma formato da sottili colonne. Un ragazzino aprì una finestra, fece appena in tempo a vedere come il gruppo scompariva nella casa e in fretta richiuse la finestra. Anche il portone ora venne chiuso, era ben costruito con pesante legno di quercia. Uno stormo di piccioni che finora aveva volato intorno al campanile si posò sulla piazza davanti alla casa. I piccioni si radunarono dinanzi al portone, come se nella casa si custodisse il loro cibo. Uno di essi volò fino al primo piano e picchiettò col becco sul vetro della finestra. Erano uccelli di colore chiaro, vivaci e ben nutriti. Con grande slancio, la donna gettò loro dal battello dei chicchi di grano, gli uccelli li beccarono e volarono verso di lei.

Da una delle stradine fortemente ripide che conducevano al porto, giunse un uomo col cilindro fasciato a lutto. Si guardava intorno con attenzione, tutto lo turbava, la vista dell’immondizia in un angolo gli fece storcere il viso in una smorfia. Sui gradini del monumento c’erano bucce di frutta, egli le spinse giù, passando, con il bastone. Giunto al portone con le colonne, bussò, togliendosi al contempo il cilindro con la destra inguantata di nero. Subito gli fu aperto, e una cinquantina di ragazzi gli fecero ala nel lungo corridoio, inchinandosi. Il capitano del battello scese le scale, salutò il signore, lo condusse di sopra, al primo piano fece con lui il giro del cortile circondato da logge slanciate, ed entrambi entrarono, mentre i ragazzi seguivano a rispettosa distanza, in un grande ambiente fresco nel retro della casa, di fronte al quale si ergeva non un’altra casa, ma solo una nuda parete di roccia nerastra. I portatori erano impegnati a sistemare e accendere alcune lunghe candele a capo della barella; non per questo si ottenne luce, ma solo furono animate le ombre che prima riposavano, e ora ondeggiavano sulle pareti. Il telo era stato sollevato dalla barella. Vi giaceva un uomo con barba e capelli cresciuti disordinatamente insieme, pelle abbronzata, di aspetto simile a un cacciatore. Giaceva immobile, apparentemente senza respirare, con gli occhi chiusi, tuttavia solo le circostanze inducevano a pensare che potesse trattarsi di un morto.

Il signore si avvicinò alla barella, poggiò una mano sulla fronte dell’uomo disteso, quindi si inginocchiò e cominciò a pregare. Il capitano fece un cenno ai portatori perché lasciassero la stanza, quelli uscirono, cacciarono i ragazzi che si erano affollati là fuori e chiusero la porta. Ma sembrò che al signore questa quiete ancora non bastasse, guardò il capitano, questi capì e attraverso una porta laterale passò nella stanza adiacente. Subito l’uomo nella barella aprì gli occhi, con un sorriso doloroso volse il capo al signore e disse: «Chi sei?». – Il signore, senza grande stupore, si alzò dalla sua posizione in ginocchio e rispose: «Il sindaco di Riva».

L’uomo nella barella fece un cenno con il capo, indicò una sedia tendendo a fatica il braccio e, dopo che il sindaco ebbe accolto il suo invito, disse: «Naturalmente, signor sindaco, lo sapevo già, ma di primo acchito dimentico sempre tutto, tutto mi gira intorno ed è meglio che io chieda, anche se so già tutto. Anche lei forse sa che io sono il cacciatore Gracco».

«Certo – disse il sindaco – lei mi è stato annunciato stanotte. Dormivamo da parecchio, quando verso mezzanotte mia moglie esclama: “Salvatore – così mi chiamo – guarda il piccione alla finestra”. C’era in effetti un piccione, ma grande come un gallo. Mi è volato all’orecchio e ha detto: “Domani verrà il morto cacciatore Gracco, accoglilo a nome della città”».

Franz Kafka con Otto Brod (fratello dell’amico Max) in vacanza a Riva del Garda

Il cacciatore assentì e si passò la punta della lingua fra le labbra: «Sì, i piccioni mi precedono in volo. Ma lei, signor sindaco, crede che io debba fermarmi a Riva?».

«Questo non posso ancora dirlo – rispose il sindaco. – Lei è morto?».

«Sì – disse il cacciatore – come lei può notare. Molti anni fa, ora devono proprio essere moltissimi anni, nella Foresta Nera, che è in Germania, precipitai da una roccia mentre inseguivo un camoscio. Da allora sono morto».

«Eppure lei vive ancora», disse il sindaco.

«In un certo senso – disse il cacciatore – in un certo senso sono ancora vivo. La mia barca funebre ha sbagliato rotta, un falso movimento del timone, un attimo di disattenzione del capitano, una deviazione nella mia meravigliosa patria, non so che cosa fu, solo questo so, che sono rimasto sulla terra e da allora la mia barca viaggia in acque terrene. Così io, che avrei voluto vivere solo sui miei monti, viaggio dopo la mia morte in tutti i paesi della terra».

«E non ha nulla a che fare con l’aldilà?», domandò il sindaco corrugando la fronte.

«Sono sempre sulla grande scala che porta di là – rispose il cacciatore. – Mi aggiro su questa gradinata infinita, ora su ora giù, ora a destra ora a sinistra, sempre in movimento. Il cacciatore è diventato una farfalla. Non rida».

«Io non rido», protestò il sindaco.

«Molto comprensivo – disse il cacciatore. – Sono sempre in movimento. Ma se prendo il massimo slancio, e già si illumina la porta lassù, allora mi risveglio nel mio vecchio battello, che desolato ristagna in chissà quali acque terrene. L’errore di fondo della mia morte di un tempo sghignazza dinanzi alla mia cabina. Julia, la moglie del capitano, bussa e mi porta alla barella la bevanda mattutina del paese la cui costa stiamo navigando. Io giaccio su un tavolaccio, indosso – non è piacevole guardarmi – un sudario sudicio, i capelli e la barba, grigi e neri, inestricabilmente aggrovigliati, le gambe coperte con un grande foulard femminile di seta, a fiori, molto frangiato. A capo c’è una candela da chiesa che mi fa luce. Sulla parete che sta di fronte a me c’è un quadretto, un boscimano, evidentemente, che mi punta con un giavellotto e intanto si nasconde il più possibile dietro uno scudo magnificamente dipinto. Sulle navi capita di vedere stupide illustrazioni, ma questa è una delle più stupide. Per il resto la mia gabbia di legno è del tutto vuota. Attraverso una finestrella della parete laterale entra l’aria calda della notte del sud e sento l’acqua che batte contro il vecchio battello.

«Sono disteso qui fin da quando, cacciatore Gracco ancora vivo, in patria inseguii un camoscio nella Foresta Nera e precipitai. Tutto avvenne in ordine. Io inseguivo, precipitai, mi dissanguai in una gola, morii e quel battello mi doveva trasportare nell’aldilà. Mi ricordo ancora come lietamente mi stesi sul tavolaccio per la prima volta. Le montagne non mi hanno mai sentito cantare come allora quelle quattro pareti ancora in penombra. Ero vissuto volentieri e volentieri ero morto; prima di salire a bordo, felice gettai via quella robaccia, il fucile, la borsa, il coltello da caccia, che con orgoglio avevo sempre portato con me, e indossai il sudario come una fanciulla indossa l’abito nuziale. Stavo disteso e aspettavo. Poi avvenne la disgrazia».

«Un destino crudele – disse il sindaco alzando la mano come per difendersi. – E lei non ha nessuna colpa?».

«Nessuna – disse il cacciatore. – Ero un cacciatore, è questa forse una colpa? Praticavo la caccia nella Foresta Nera, dove a quei tempi c’erano ancora i lupi. Tendevo agguati, tiravo, colpivo, scuoiavo, è questa forse una colpa? Il mio lavoro era benedetto. Mi chiamavano “il grande cacciatore della Foresta Nera”. È forse una colpa?».

«Non è compito mio deciderlo – disse il sindaco – ma neppure a me tutto questo sembra una colpa. Ma allora di chi è la colpa?».

«Del capitano – rispose il cacciatore. – Nessuno leggerà ciò che qui scrivo, nessuno verrà ad aiutarmi, e se venisse dato l’ordine di aiutarmi, tutte le porte rimarrebbero chiuse, chiuse tutte le finestre, tutti rimarrebbero a letto, le coperte tirate fin sopra la testa, tutta la terra sarebbe un albergo di notte. E ciò si spiega bene, perché nessuno sa nulla di me, e se sapesse di me, non saprebbe dove mi trovo, e se sapesse dove mi trovo, non saprebbe trattenermi sul posto, e se mi ci sapesse trattenere, non saprebbe come aiutarmi. L’idea di volermi aiutare è una malattia e si deve curare a letto.

«Lo so, e perciò non scrivo per invocare aiuto, nemmeno quando in certi momenti – sconvolto come sono, per esempio ora – ci penso con insistenza. Ma per scacciare da me questi pensieri, basta che mi guardi in giro e mi rammenti dove sono e dove – posso ben dirlo – abito da secoli».

«Straordinario – mormorò il sindaco. – Straordinario. E ora lei pensa di rimanere qui da noi a Riva?».

«Io non penso – disse il cacciatore sorridendo, e per attenuare l’ironia pose la mano sul ginocchio del sindaco. – Io sono qui, altro non so, altro non posso fare. La mia barca è senza timone, viaggia con il vento che soffia nelle regioni più basse della morte».

fotografia di Franz Kafka

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