Menu Close

Bagno di servizio

di Simona Cremonini

Racconto secondo classificato al “Premio Ghost 2003”, ambientato a Chiari a Rassegna Microeditoria 2003

|

Mi sono sentita inizialmente scettica di fronte al libro. Ho pensato subito che fosse una colossale burla, lo scherzo di qualcuno che volesse attirare l’attenzione, e infatti ho riposto il volume nella mia libreria senza curarmi per niente di quanto ho letto alla fine di quelle pagine.

Soffermandomi a riflettere, però, mi rendo conto che quanto raccontato potrebbe avere un fondo di verità.

Per questo sento di avere qualche dubbio e, se non mi sentissi ridicola nel farlo, ho la tentazione di tornare a Chiari per scoprire se io e Alessia siamo state parte di qualcosa di inspiegabile.

Alessia è la mia più cara amica e, come me, è un’appassionata lettrice di romanzi.

Qualche settimana fa abbiamo saputo che uno dei nostri autori preferiti sarebbe stato vicino a Brescia, durante la seconda giornata di una rassegna letteraria. Non abbiamo esitato a partecipare. Anzi, ci siamo fermate diverse ore per visitarla, così abbiamo finito per pranzare poco distante, in un bar sulla statale.

È stato nel locale che ho trovato il libro. Infatti, proprio all’interno del piccolo caffè, una curiosa vetrinetta esponeva gli oggetti dimenticati da altre persone di passaggio, e dava la possibilità di acquistarli. Mi sarebbe piaciuto comprare un ombrello con dei teneri gattini stampati sopra; poi ho deciso di prendere, per pochi euro, una raccolta di poesie la cui autrice, una ragazza di Modena, l’aveva presentato il giorno prima proprio al festival che io e la mia amica avevamo appena lasciato.

Sulle ultime pagine bianche, dedicate alle riflessioni indotte dalla lettura, un burlone ha scritto le righe che seguono. Continuo a dirmi: “Sara, è solo uno scherzo di cattivo gusto”. Ma, dopo averle lette, continuo a pensare a quell’ombrello e al fatto che io e la mia amica siamo andate nel bagno di servizio un’unica volta, insieme.

Chiari, 8 novembre 2003

Mi chiamo Marco Barlottini e lascio questo diario perché ho deciso di andare in bagno.

Cielo, se rileggo la frase che ho appena scritto, non riesco neppure io a credere all’incubo che sto vivendo! Eppure sono qui, appoggiato al tavolino di un bar, a scrivere di fatti che mi appaiono stupefacenti.

Un’ora fa eravamo tutti e quattro in questo stesso piccolo caffè, reduci dalla presentazione della prima raccolta di poesie di Sandra, ed eravamo fuori di noi dalla gioia per averla vista realizzare un sogno: la nostra amica scrive da quando era bambina e ora potrà vedere la sua antologia “Aquiloni” nelle librerie.

Sandra è una ragazza sensibile e riservata. Ci siamo stretti attorno a lei per farle coraggio in quest’occasione, visto che era molto intimorita di doversi mostrare e di dover affrontare le domande del pubblico. Ma Rassegna Microeditoria Italiana era un’ottima possibilità per farsi pubblicità, perciò ha avuto tutto il nostro sostegno per sconfiggere la timidezza.

Quanto eravamo affiatati! Siamo riusciti a trasmetterle un grande entusiasmo e Sandra non ha avuto nessun problema per parlare di sé e del libro.

La presentazione è stata un gran successo; purtroppo, non posso dire lo stesso della decisione di pranzare in questo piccolo bar.

Oggi piove e c’è molto vento: per non dover fare molta strada a piedi e finire inzuppati di pioggia da capo a piedi, abbiamo deciso di fermarci in questo caffè, che abbiamo visto stamattina passando sulla statale.

L’automobile di Alessandro è parcheggiata piuttosto lontano, vicino al teatro locale, perché il mio amico non si è fidato di lasciare la sua preziosa Alfa appena acquistata sul ciglio della strada principale, come abbiamo visto fare a tanti altri visitatori. Nessuno di noi aveva voglia di andare fin là, perciò questo locale è sembrato una scelta naturale per fare uno spuntino.

Il bar è piuttosto vecchio. Dalla forma esterna sembra un grosso chiosco per i giornali, una specie di bungalow azzurrognolo e dal colore arrugginito. Dentro, somiglia a una piccola osteria. Entrando, sulla sinistra, c’è una bizzarra piccola vetrina con degli oggetti di tutti i tipi in vendita. È curioso, perché un cartello scritto a mano indica che sono gli effetti dimenticati nel bar dalle persone di passaggio, che non sono tornate a prenderli. Ci sono degli ombrelli, accendini, portafogli, portachiavi, un paio di pupazzi di peluche, una camionetta giocattolo dei pompieri, alcuni pacchetti di sigarette di varie marche e un libro di Camilleri in edizione economica.

Sopra la vetrinetta, sulla parete, sono persino appesi indumenti di abbigliamento: Paola non è riuscita a staccare gli occhi per un po’ da una giacca di pelle nera. «Andrebbe a pennello abbinata alla gonna che ho comprato la settimana scorsa al mercatino dell’usato di Bologna», ha commentato, quando Katia le ha chiesto perché la fissasse.

Sulla parete di fronte all’ingresso ci sono delle scansie con altra merce: giocattoli, cartoline, bigliettini d’auguri, portachiavi; forse le cose dimenticate non sono sufficienti per mandare avanti gli affari.

«Quest’attività non deve andare tanto bene: il bar è vuoto e a un tiro di schioppo c’è una manifestazione con un sacco di ospiti», mi ha sussurrato Alessandro. Ho fatto spallucce. Forse gli altri hanno scelto locali meno decadenti per mangiare. E, in quel momento, la mia attenzione era tutta rapita dal barista, un uomo anziano che ci fissava in modo ostile.

I miei amici, occupati a guardarsi intorno e a osservare tutti gli oggetti, non sembravano essersi accorti di questo atteggiamento animoso, perciò hanno preso possesso di due dei minuscoli tavoli del locale, avvicinandoli tra loro.

«Mi porta un panino al prosciutto crudo con una Fanta?» ha chiesto Alessandro a voce alta al barista. Quest’ultimo non ha avuto altra scelta se non di spostarsi dal bancone e venire a prendere controvoglia le nostre ordinazioni.

«Ehi, ma che cosa gli abbiamo fatto?» mi ha domandato Paola a bassa voce, subito dopo che il barista si era allontanato; anche lei era resa conto dell’astio del gestore.

«Non ne ho la più pallida idea. Ma non credo sia il caso di farlo arrabbiare», le ho risposto.

«Speriamo almeno che Norman Bates laggiù sia un po’ veloce a far da mangiare. Non ho voglia di aspettare con il suo sguardo truce addosso», ha commentato Alessandro.

Katia è rimasta in silenzio.

Abbiamo atteso qualche minuto, cercando di parlare a bassa voce dei fatti nostri e resistendo alla tentazione di controllare se il barista ci stesse osservando oppure no.

Poi sono arrivati panini, tramezzini e bibite, e il mangiare ci ha distratti per qualche minuto dalla presenza dell’insolito sorvegliante.

Poi, una volta finito il suo pasto, Alessandro ha chiesto dov’era il bagno.

«Non c’è un bagno interno, ma solo il bagno di servizio, due porte più avanti a lato del bar, dopo la porta della cucina», ha risposto il barista. L’ha fissato con uno sguardo da pazzo e gli ha chiesto se era sicuro di doverci andare.

«Sì», ha sghignazzato Alessandro, «sono proprio sicuro che devo andarci».

L’atteggiamento di Alessandro ci ha fatto ridere tutti e, per un attimo, l’atmosfera si è rilassata.

«Le devo dare una chiave», ha aggiunto il vecchio, rassegnato di fronte alla nostra invadenza. «Non lascio mai quella porta aperta».

Più tardi, quando anch’io sono andato in bagno, ho capito cosa intendeva dire. Il servizio ha una porta esterna, laterale rispetto al bar e nascosta dalla strada. Sembra, entrando, un ripostiglio per attrezzi, anche perché c’è una specie di falciatrice a mano appoggiata contro la parete di fronte alla porta. Si entra in questo piccolo ambiente e sulla destra, dopo nemmeno due metri, c’è una porta che conduce in un piccolo locale che ospita un vespasiano e un lavandino. La latrina è talmente sporca da far quasi passare la voglia di usarla ma, per fortuna, non è necessario sedersi su un appoggio comune, ma solamente chinarsi: non c’è un water ma solo un gabinetto a terra. Vedendolo, ho immaginato che la decisione di chiudere a chiave fosse una maniera per impedire che qualche drogato finisse per occupare il bagno per bucarsi. Ma, in quel momento, all’interno del bar, senza conoscere il posto, le parole del vecchio sono risultate un po’ tetre.

«Senti, Ale, ti dispiace se ti rubo la precedenza in bagno?» ha chiesto Paola a bassa voce. «Credo di avere un “inconveniente femminile”».

«No, non c’è nessun problema, vai pure tu per prima».

«Vuoi che ti accompagno? Ho degli assorbenti nello zainetto», si è offerta Katia.

«Grazie, mi faresti un piacere», ha risposto Paola.

Insieme, sono uscite dalla stessa porta da cui siamo entrati. Non sapevo perché, ma mi sentivo sollevato all’idea che Paola non andasse in bagno da sola.

Io e Alessandro siamo rimasti nel locale con il barista e, poco dopo, anche il vecchio è sparito, varcando la porta da cui era uscito con il nostro pranzo.

«Se ora lo seguiamo in cucina, vediamo il buco da cui spia dentro il bagno, come Norman Bates in Psycho», mi ha sussurrato Alessandro.

Mi è scappato un sorriso, e poi non sono riuscito a trattenermi dal mettermi a ghignare. Il vecchio, con il suo sguardo indagatore, sarebbe stato perfetto per interpretare la parte del mostro.

«Ma forse poteva anche non prendersi tutto questo disturbo», ha aggiunto Ale con un’aria da finto saputello. «Bastava chiedere al qui presente se Katia è una visione per cui vale la pena rischiare di essere denunciato come guardone».

Il mio sorriso da sornione è svanito. Mi sono sentito infastidito nei confronti di quella mezza domanda e mi sono rabbuiato. Da alcune settimane nella nostra compagnia circolano strane voci riguardo me e Katia; in realtà siamo usciti noi due da soli un mercoledì sera, ma a parte il bacio della buonanotte non è successo nulla. E da allora lei sembra evitare in tutti i modi di stare sola con me, forse per non parlare di quel bacio molto tenero che ci siamo scambiati sulla porta di casa sua, quando l’ho riaccompagnata.

Alessandro si è reso conto che non volevo parlare di me e Katia, ed è rimasto per un po’ in silenzio, osservando il barista che, rientrato nel locale, si è messo a lavare delle stoviglie.

Katia e Paola sono tornate dal bagno. Avevo voglia di un caffè e ho domandato agli altri se ne volessero uno anche loro.

«Ci può preparare quattro caffè di cui uno macchiato freddo?», ho chiesto al barista con la massima cortesia.

I quattro caffè sono arrivati di lì a poco, e li abbiamo consumati sotto gli occhi del barista che, secondo me, faceva finta di essere distratto ma ci stava tenendo sotto controllo.

«Anche se al caro vecchio Norman darà sicuramente fastidio, credo di non poter aspettare oltre per pisciare.» Alessandro si è alzato ed è andato dal vecchio. «Mi dà le chiavi del bagno?» gli ha chiesto a bruciapelo.

Il barista gliele ha consegnate senza dire nulla. Alessandro è tornato al tavolo per qualche istante e mi ha bisbigliato: «Dopo faccio anche un salto alla macchina. Ho finito le sigarette e in auto ne ho almeno un pacchetto di scorta».

Ho visto il mio amico che usciva dal bar. Ho preso in mano il libro di Sandra e mi sono messo a rileggere alcune sue poesie. Le ragazze hanno cominciato a guardare i biglietti di auguri, chiacchierando tra loro a bassa voce.

Dopo una decina di minuti, Paola e Katia sono tornate al tavolo.

«Credo che le mie “parti basse” mi abbiano lanciato un altro allarme. È meglio se vado in bagno a controllare», ha detto Paola.

«Ma Alessandro non è ancora tornato. Ha lui le chiavi del bagno», le ha ricordato Katia.

«Ale è sempre il solito. Se ne sarà fregato dell’accortezza del barista nel chiudere la porta. Avrà lasciato le chiavi nella serratura e sarà già andato alla macchina. Se no, se voleva restituirle, sarebbe già tornato». Paola si è alzata.

«Vuoi che ti accompagno?», le ha chiesto Katia.

«No, non disturbarti, ho tenuto gli assorbenti nella mia borsa. Tanto, torno tra pochi minuti».

Paola è uscita. Prima che la porta si chiudesse l’ho vista rasentare la parete per evitare la pioggia battente. Dopo, non è più tornata nel bar.

Ho posato il libro di Sandra sul tavolo. «Non immaginavo che di piccoli editori ce ne potessero essere così tanti in Italia», ho detto a Katia, per evitare che tra noi potesse innescarsi un silenzio teso come quello delle ultime settimane.

«Sì, sono molti, e quelli che abbiamo visto erano solo una minima parte. Strano, a pensarci. Secondo i sondaggi la gente non legge, eppure ci sono tante persone che investono sui libri».

«Nonostante tutto dev’essere un lavoro redditizio», le ho risposto.

«Non credo, penso che sia soprattutto la passione a non farli mollare». Lo sguardo di Katia era distratto a guardare il barista, occupato ad asciugare una quantità di bicchieri che sembrava non finire mai.

«È meglio se vado a vedere da Paola se c’è qualche problema», ha detto Katia, alzandosi.

“No, resta, parliamo di quel bacio, perché mi piaci davvero”, avrei dovuto dirle.

Invece le ho detto che l’avrei aspettata lì. La sola presenza di Norman il barista rendeva l’atmosfera tanto lugubre da non sentirmela di affrontare un argomento così delicato. Perciò, anche se avevo voglia di parlarle dei miei sentimenti, l’ho lasciata andare da sola, in bagno.

Mi accorgo, scrivendo, che uso il passato per parlare di lei; eppure, solo un’ora fa, eravamo tutti e quattro qui insieme.

Anche Katia è uscita dal locale e sono rimasto solo, con il barista.

Ho ripreso in mano il libro e ho cercato di rimettermi a leggere. Non ci sono riuscito. Continuavo a pensare a Katia e a costruire discorsi immaginari in cui le confidavo le mie sensazioni su noi due. Credo di aver passato quasi una decina di minuti a fissare la stessa pagina.

Quando ho riacquistato un po’ di lucidità, mi sono reso conto che qualcosa non andava. Era passato troppo tempo. Alessandro, Katia e Paola avrebbero già dovuto essere tornati.

Ho provato un profondo turbamento.

In quel momento un signore distinto con una ventiquattrore è entrato nel locale e ha domandato un panino e un succo di frutta. «Mi può dire dove è il bagno?», ha chiesto al barista, prima di ricevere la sua ordinazione.

«Deve passare fuori. È la seconda porta a sinistra a lato del bar. Le conviene stare attaccato al muro per evitare la pioggia», ha risposto il vecchio, guardandomi di sottecchi.

«Mi scusi», ho chiesto allo sconosciuto con la valigetta, mentre si stava accomodando a un altro tavolino, «non ho visto tornare due mie amiche dal bagno, le dispiace se vengo con lei?»

Ho sentito che era meglio avere qualcuno con me per controllare, e non mi fidavo del barista. Il rappresentante mi ha squadrato e ha visto che ero inoffensivo.

«Non c’è problema, se vuole diamo un’occhiata insieme», ha risposto con cortesia.

Sono uscito dal bar con il nuovo arrivato.

Davanti alla soglia del bagno, a terra, ho trovato un oggetto che mi ha fatto sentire ancora più preoccupato di quanto già non fossi. Era la chiave di un’Alfa Romeo, come quella di Alessandro.

Ho accompagnato nel bagno il rappresentante, ma all’interno non c’erano altre tracce, né di Alessandro, né delle nostre amiche.

«È strano», ho riflettuto ad alta voce.

«Forse hanno voluto farle uno scherzo. Magari sono tornati tutti alla macchina», ha commentato il venditore.

L’ho ringraziato e sono uscito dal bagno, lasciandolo a fare i suoi bisogni in pace, da solo.

Ho pensato di tornare alla macchina, anche se non capivo come Ale avesse potuto andare fin là, senza chiave, e perché non fosse nemmeno tornato indietro per recuperarla se l’aveva persa.

Ero spaventato perché non capivo dove fossero finiti tutti. Sono rientrato nel bar, dando uno sguardo interrogativo in giro, ma c’era solo il barista che stava ancora asciugando delle stoviglie.

Quindi ho deciso di provare ad andare fino alla macchina. Ho preso l’ombrello, che era ancora nel bar appoggiato a terra, e ho infilato il libro sotto il giaccone. L’ombrello giallo di Katia e quello di Paola con i gattini stampati sopra erano ancora posati a terra. Mi sono chiesto dove potessero essere andate senza di essi sotto la pioggia che imperversava fuori.

«Le mie amiche sono rientrate mentre ero in bagno?», ho chiesto al barista. Il vecchio ha ignorato la mia domanda, continuando a tacere.

Frustrato, sono uscito dal bar. Speravo di incrociare i miei amici tornando alla macchina e mi sono incamminato lungo il viale alberato che porta al parcheggio del teatro. Ma, una volta arrivato lì, ho dovuto concludere che Alessandro, Katia e Paola non erano tornati all’automobile. L’Alfa grigia era sotto la pioggia scrosciante, nella stessa identica posizione in cui stamattina era stata parcheggiata; intorno non c’era nessuno.

Non sapevo cosa fare. La sparizione di tutti i miei amici era inspiegabile. Perciò ho preso l’unica decisione sensata che mi restava: sono tornato al bar ad aspettarli.

Sono entrato. Posati a terra c’erano ancora gli ombrelli delle mie amiche.

I miei jeans erano inzuppati di pioggia e i miei capelli erano mezzi bagnati. È stato allora che ho notato l’ombrello e la ventiquattrore dello sconosciuto accompagnato in bagno nemmeno un quarto d’ora prima. Ho avuto veramente paura. Paura per la sorte dei miei amici. Paura per lo sconosciuto amichevole che non è più tornato dal bagno. E il vecchio barista ancora taceva, proseguendo con le sue mansioni.

Non ce l’ho fatta più. Mi sono messo a urlare, ma lui è rimasto impassibile. Non ha detto nulla, non ha dato alcuna spiegazione, soprattutto è stato imperterrito: la sparizione di quattro clienti nel giro di neanche un’ora non lo ha nemmeno scalfito!

Per questo ho deciso di sedermi a questo tavolino e di mettere per iscritto quanto è successo. Ho aperto il libro di Sandra, che ho tenuto sempre con me. Ho sfogliato “Aquiloni” fino alla fine, dove ci sono delle pagine libere e tanto spazio per scrivere. Dovrei trovare qualcuno che venga in bagno con me, ma sono certo che se ci andassi con qualcun altro non troverei alcun capo a questo mistero: le ragazze erano insieme la prima volta che sono andate in bagno e quando io stesso sono entrato con il rappresentante non ho trovato che un gabinetto. Per sapere cosa è successo devo andarci da solo, come sole erano tutte le persone che sono scomparse quando ci sono andate.

Ma non potevo farlo così, senza dire nulla a nessuno, senza lasciare almeno una flebile traccia. Forse il libro sparirà quando varcherò la soglia del bagno, però ho la speranza che resti su questo tavolino e possa essere letto da altri o, almeno, che finisca in quella vetrinetta, a destra dell’entrata. In cui temo finiranno gli ombrelli delle mie amiche e il mio. Perché ora sospetto che gli oggetti che contiene non siano gli effetti dimenticati nel bar dalle persone di passaggio, che non sono tornate a prenderli. Ho il presentimento che quelli siano gli oggetti delle persone che sono andate in bagno da sole.

Perciò, ora vado in bagno.

Spero che tra qualche minuto scoprirò che queste scomparse sono solo uno degli stupidi scherzi di Alessandro.